Le discord originaire. Epopea, tragedia e commedia Il soggetto tragico

Più si legge Ricœur, se lo si legge “dall’alto”, percorrendolo in lungo e in largo e soffermandosi d’un tratto con attenzione su questo o quel dettaglio, più si sente la condizione umana, storica, come una condizione tragica. Una condizione che comporta il male compiuto e subìto, la sua ampiezza, la sua profondità, la sua sproporzione; una condizione che implica il tempo, la distensione e il divario da sé a sé. Il soggetto è lacerato. E i due termini devono essere presi sul serio: non c’è lacerazione se non c’è soggetto; ma non c’è soggetto se non lacerato. È il prezzo da pagare se si vuole davvero sentire la voce del soggetto che parla, che pensa ciò che dice, che cerca di dire ciò che sente e di sentire ciò che fa. Ecco quindi che abbiamo a che fare spesso col tragico, è uno dei temi che tornano costantemente, come si torna al centro, nel cuore del labirinto. Le comparazioni del tragico greco e del tragico biblico, il capitolo sulla visione tragica dell’esistenza e la figura di un dio malvagio, nella Simbolica del male, o l’interludio sul tragico dell’azione, in Sé come un altro, sono solo alcune tappe di un’impresa che consiste nel fare emergere ovunque la sproporzione, la tensione insostenibile che l’idea di una fragile responsabilità comporta. Poiché è questa la situazione del soggetto sofferente e agente: egli porta questo duplice volto della capacità, capace anche di qualsiasi cosa e del peggio, e della vulnerabilità, dell’impotenza balbuziente. Lo porta fin nel nodo tragico dell’errore involontario, del piccolo sbaglio criminale, della libertà predestinata in virtù della quale volendo una cosa si fa il suo contrario. Anche gli studi sul significato del peccato originale, o sul mito della pena, o sulla punizione, meno conosciuti, vanno collocati in questo registro.

Ma il tragico non è in gioco solo nei numerosi testi in cui Ricœur ne parla. È noto il momento morale in cui il soggetto scopre che non può decifrarsi se non nelle sue opere, nei suoi atti, nelle sue stesse parole, che gli sfuggono per dire quello che non voleva dire. È grazie a questa serietà nel prendere in considerazione ciò che si fa agli altri che si entra nella sfera propriamente morale. Noi siamo degli essere pericolosi. La prospettiva etica e intenzionale non basta a giustificare un’azione. Volendo infatti fare il bene, io posso far soffire. Questa constatazione tragica segna l’ingresso nel mondo propriamente morale. E il regime tragico corrisponde a quello della “norma morale” sotto diversi aspetti.

Anzitutto, nella sfera morale come in quella tragica, abbiamo a che fare con un soggetto che argomenta, che cerca di dire ciò che fa, di pensare ciò che dice, che discute con il suo avversario, che non esita a porsi su un piano di generalità, a universalizzare la massima della sua volontà. Ciò presuppone un soggetto che ha rinunciato alla particolarità del proprio punto di vista, che considera chiunque altro come equivalente di se stesso e se stesso come equivalente di chiunque altro! Moralmente un soggetto vale quello che valgono i suoi atti, né più né meno. E poi la morale è una, ed è il rigore stesso della norma che accentua il tragico, quando si affrontano doveri o imperativi altrettanto universalizzabili, gli uni e gli altri. Ricœur non abbandona la morale, né il tragico, perché è proprio in quanto esse pretendono all’universale che le norme in conflitto possono prendere questo forma antagonista, ed è proprio il rigore delle regole ad inasprirle fino al dilemma – così caro alla nostra filosofia. La giustapposizione tollerante delle morali o il relativismo culturale smussano il senso del tragico.

Su un piano ancora più largo, ci sono due configurazioni del tragico, che chiamerò il tragico di conflitto e il tragico di irreversibilità, che attraversano da parte a parte la sua ermeneutica, la sua filosofia politica e giuridica, la sua etica e fin la sua poetica. È qui che si percepisce maggiormente l’importanza dell’istituzione, sia essa l’istituzione politica della conflittualità tra contemporanei uguali, o l’istituzione della durata, del ricambio delle generazioni.

Il conflitto delle interpretazioni mette in scena, drammaticamente, il tragico di una rivalità delle ermeneutiche, di una discussione senza sintesi né riconciliazione possibile, e questo approccio torna costantemente in Ricœur. L’amore e la giustizia non coincidono mai, non più del religioso e dello Stato che sono come due pedagogie irriducibili, e nella politica stessa le due facce del paradosso non possono trovare un consenso definitivo. Il tragico del conflitto deriva dalla contesa (différend) che sorge tra coloro che non condividono la stessa questione ma desiderano farlo. Tutto allora è dilemma, divisione, aporie, e la tragica ma insuperabile ristrettezza dei punti di vista spiega perché i punti di vista opposti hanno ragione insieme, e torto insieme. Bisogna perciò separare i registri, mostrare sempre la discontinuità dei problemi, non generalizzare con facilità. Bisogna così prendere sul serio il termine “critica” nella locuzione “ermeneutica critica”. L’eccesso deliberativo, il furore argomentativo di Ricœur derivano da questo elemento tragico, da questa perpetua messa in scena di antagonismi insuperabili, in cui si formano e si inaspriscono le une contro le altre le regole della vita civile.

D’altra parte l’ermeneutica ci aiuta a far vedere un’altra configurazione del tragico, che non è solo la distorsione introdotta dalla contesa nella comunicazione, ma il sentimento dell’irreparabile, dell’irreversibile. Non parlo soltanto delle conseguenze irreversibili dell’atto o della parola una volta inserite nel corso del mondo, ma del divario (décalage) profondo introdotto nella comprensione storica dalla generazione, dalla successione irreversibile delle nascite e delle morti. Ciò che rispondeva per una generazione è appunto ciò che fa problema per la generazione seguente. I figli pagano per gli errori dei padri, dai quali non hanno potuto liberarsi. Come ripetere per non ripetere? Come reinterpretare per fare andare le cose diversamente? Si tratta di nuovo di un intervento tipicamente tragico. E poi il nuovo fagocita il vecchio, ma una parola fagocitata può fagocitare dall’interno la parola che l’ha fagocitata! Come si può seguire interminabilemente la vita dell’Antigone di Sofocle all’interno della dialettica hegeliana, così ci si augura allora che il vecchio sia piuttosto la maieutica del nuovo, o il nuovo la poetica del vecchio. Ricœur cerca incessantemente questa equazione del rispetto reciproco tra monte e valle, queste ermeneutica poetica.

Ma comunque il divario rimane, e non sappiamo cosa succederebbe se si pretendesse di sopprimere il regime tragico, la condizione del “soggetto lacerato”. Il tragico è una condizione. Esso designa una discordanza, un’agonia, una dissonanza originaria che dà il suo timbro inimitabile e insostituibile a una voce, una voce che muore di tenere un discorso fino in fondo. Un’ultima parola: il tragico tocca il profetico, su uno dei suoi limiti più attivi, più costitutivi. Esso ricorda anzitutto l’origine violenta di ogni Stato. E che ogni società pacificata nei suoi compromessi si regge su conflitti fondatori, su conflitti dimenticati. Ci sono conflitti sotterranei che si avvelenano per non essere stati rielaborati insieme fino a poter essere nominati. Il profeta tragico riapre la memoria interdetta, rompe con l’amnistia ingannevole. Ma anche perché non ha nessuna fretta, non rimastica nessuna sventura passata, perché la sventura è per lui interamente presente, non è finita, il profeta cieco vede quello che gli altri non vedono, l’imminenza di un’altra sventura. Sente e fa sentire la lamentazione anti-politica, la pura lamentazione, purificata da qualsiasi accusa. Questa lamentazione dice solo la vulnerabilità, la condizione mortale troppo singolare e troppo universale per nessuna delle nostre comunità politiche, e che cinge tutti gli affari umani.

Il soggetto tragi-comico

Ci sono però alcuni punti, attraverso queste rapide letture, che ci costringono a travalicare il tragico con una sorta di comico, a passare dal soggetto tragico al soggetto tragi-comico. Ci si domanderà dove si possa trovare qualcosa di comico nei temi ricœuriani. Non mostrerò tutto quello che ci può essere di profonda allegria nello stile di Ricœur, di ironia comica nelle sue riprese, di umore nella modestia con cui si muove in tutta l’ampiezza del paesaggio filosofico, sorprendendo sempre con un procedere che avanza solo per indietreggiare un po’ altrove. Ad ogni modo, non si ha mai a che fare con un soggetto definitivamente riconciliato, e neanche l’alterità non è solo se stessa! E quando si crede di essere arrivati alla meta, sapientemente Ricœur lascia franare il suo edificio.

Ma ecco, secondo le parole dell’Agamennone di Eschilo, “quando in pieno sonno, sotto lo sguardo del cuore, stilla il doloroso rimorso, la saggezza in essi, loro malgrado, penetra”. Ed è con l’interludio sul tragico dell’azione che si lascia la sfera della norma morale per quella della saggezza pratica. La morale sarebbe bastata a mettere in scena l’unilateralità dei caratteri, a piegarli fino a contenerli in uno spazio comune. Ma quando sono i princìpi morali stessi a generare più conflitti di quanti ne risolvano, in questi conflitti tragici suscitati dalla moralità solo il ricorso a una sorta di buon senso etico autorizza la saggezza pratica, la saggezza di un giudizio che non pretende più di generalizzare, ma solo di essere praticabile, in situazione. Ricœur suggerisce che la dialettica della prospettiva etica e della norma morale si stringe e si scioglie in un giudizio in situazione, senza l’aggiunta di una terza istanza che pretenderebbe di fare la sintesi e l’equazione delle altre due. “La saggezza pratica consiste nell’inventare le condotte che soddisferanno meglio l’eccezione richiesta dalla sollecitudine, tradendo però il meno possibile la regola”. La saggezza pratica ha un regime tragi-comico in quanto essa è sbilenca. È qui che compare il comico, poiché non siamo più nella semplicità del puro tragico. La discordanza tragi-comica congiunge una grandezza morale a un saggio minimizzare.

Il relativizzare è la voce della saggezza, che mostra che tutto è complesso, più eterogeneo di quanto si creda. Durante la guerra fredda, Ricœur scriveva: “complichiamo, complichiamo tutto; confondiamo le loro carte; il manicheismo in storia è stupido e malvagio”. Questa saggezza è anche quella che sa il divario perpetuo, il fatto che “l’onda non sale mai allo stesso momento su tutte le spiagge di un popolo”. Essa accetta che tutto frani e si debba sempre ricominciare. Guarda con una certa serenità i risultati allontanarsi dagli scopi dei nostri sforzi. Sa che non ci sono risposte, ma che le nuove domande eclissano le vecchie. Accetta che le sue priorità del momento siano discutibili, ma si fa carico di fermare la discussione per agire, per il momento, il meno male possibile. Quando deve giudicare e ripartire, essa accetta che ciò che è davvero giusto per uno non lo sia del tutto per l’altro. Cerca costantemente di correggere la perdita di singolarità con procedimenti che le permettono di far vedere ciò che perde, ciò che si perde.

Ricœur raccorda la saggezza pratica a una Sittlichkeit hegeliana, ma considerata come un elemento di senso comune, non come una sintesi. Ciò che la saggezza presuppone, e che è veramente hegeliano, è che ogni partito abbia saputo rinunciare alla parzialità, e se non scambiato il proprio punto di vista con il proprio antagonisa, almeno riconosciuto la possibilità di un altro punto di vista – e dunque accettato la possibile scomparsa del proprio punto di vista. Il soggetto è comico nel cambiare ruolo in tal modo, nel farsi tutto per tutti. In una metamorfosi orfica che esce dalle lacrime con una sorta di sorriso, la saggezza accetta con Rilke che “essere qui è uno splendore”. È così che essa acconsente, così che perdona. Essa accetta di sopravvivere alla propria storia, di sopravvivere al proprio ruolo. Scendendo dai suoi grandi cavalli, cessando di fare tanto rumore per nulla, ritorna al mondo ordinario. Il soggetto “che” ha fatto questo e quello, proprio perché è responsabile, perché è lo stesso chi, è semplicemente approvato nel suo esistere, qualunque cosa abbia fatto o faccia. Una approvazione inattiva. Il soggetto tragicamente sottomesso all’interminabile lavoro della memoria, del lutto e della generazione è qui inoperoso, senza lavoro; contempla, come diceva Deleuze. Vale più dei suoi atti, ed è qui che appare il comico. Poiché ciò che vale di più, è appunto qualcosa di banale e debole, come un corpo singolare, mortale, sessuato, come un essere che desidera essere senza sapere cosa desidera.

La saggezza prende qui le fattezze di una folle noncuranza – Ricœur evoca il Kierkegaard inoperoso degli “uccelli nel cielo e dei gigli nei campi”, alla fine della Memoria, la storia, l’oblio. È persino, si dovrebbe dire, un soggetto noncurante della propria coerenza, della propria redenzione, un soggetto svuotato di qualsiasi cura di sé. È esattamente il punto di inversione comica, e non c’è altra redenzione – qui è il controsenso di quei cattolici atei fanatici che si ignorano, così tipici dell’intellighenzia francese, alla Badiou. Anzitutto ci sono altre figure, più epiche, o più tragiche, e non meno decisive in Ricœur, secondo le quali lo sciogliersi del soggetto dai suoi atti non è così facile; ma una simile larghezza platonica, la facoltà di tenere più discorsi senza sapere ancora se sono del tutto compatibili, è per loro inimmaginabile. E appunto, come potremmo avere un soggetto fedele, responsabile, un soggetto capace di promettere, capace di raccontarsi e di imputarsi qualcosa, se si dissolve interamente il soggetto nei suoi atti e nei suoi enunciati, se non resta neanche, a volte, la piccola casella vuota, inoperosa, una casella di identità assente, una casella puramente interrogativa, una casella per la quale la fedeltà stessa è dubbio? È perché ci sono dei momenti metà comici metà mistici in cui l’identità non è ciò che conta, che “non si vede come la domanda chi possa scomparire nei casi estremi in cui resta senza risposta”. Il comico è qui quello del clown infimo e risibile di Michaux che Philibert ha così efficacemente avvicinato a Ricœur, è quello del folle nel Re Lear.

Infine, il comico attesta che la saggezza deve a volte farsi follia, utopia, poesia che scuote il mondo. La saggezza tragi-comica raggiunge così l’amore inteso come limite, come disorientamento. L’amore tragi-comico non è solo la saggezza singolare che rovescia le figure, addita la vulnerabilità del soggetto responsabile e la capacità del soggetto fragile. Non è soltanto la sollecitudine singolare che si lega a ognuno. Non è soltanto la metafora nuziale del Cantico dei cantici in cui gli amanti non si trovano se non accettando di mancarsi sempre e comunque di cercarsi sempre. È anche e più ancora questo amore di Cordelia per suo padre, un amore che non vuole neanche dire troppo forte il suo nome, un amore così libero che arrossisce di esprimere la sua gratitudine. È il disaccordo originario (discord originaire) del soggetto tragi-comico.

Il soggetto epico

Perché procedere oltre? Il lettore ha compreso che ho seguito il filo direttore delle tre figure letterarie della religione estetica nella Fenomenologia dello spirito. Ma occorre davvero bere il calice dell’hegelismo fino in fondo, fino a quel grande sogno epico che ha prodotto la nostra sventura? Hegel stesso non chiude forse sulla commedia, e Ricœur sulla saggezza pratica? Certo, ma come in ogni vero pensiero, entrambi hanno iniziato nell’epopea, e tutto comincia con l’epopea. L’epopea non comporta forse la propria dissociazione in tragedia e commedia? L’etica non porta nel suo fianco il passaggio necessario per la norma morale, e il ritorno pratico della saggezza? E la promessa di cominciare non comporta la perseveranza del mantenere e la saggezza di lasciare, di concludere lasciando inconcluso? Non è forse l’epopea che elabora la gamma intera della rappresentazione che il tragico e il comico costantemente accrescono ai margini?

L’epopea ha un ritmo ternario, di discesa e risalita. Bisogna passare per la negatività per rilanciare in avanti. Ora questo ritmo narrativo è non meno fondamentale per Ricœur. Nella sua grande narrazione, il soggetto iniziale è in qualche modo strappato alla sua tautologia (alla sua identità-idem), tratto fuori da se stesso, sottratto al suo mondo dalla grandezza di atti e parole più grandi di lui. Questo soggetto non esiste se non nelle peripezie, nell’odissea, nel dispiegarsi delle variazioni eidetiche e nella traversata delle prove che gli permettono di farsi riconoscere: non come identico a se stesso, ma come soggetto capace di sostenere la tensione tra i diversi profili che le sue storie raccontano, senza che si sia davvero sicuri che si tratti dello stesso soggetto. Perciò Ulisse può piangere sentendo la sua storia cantata da altri, e Giuseppe si volta per piangere senza che i suoi fratelli lo riconoscano. Ettore è tanto il tenero e debole sposo quanto il guerriero valoroso. Ma è appunto la temporalità epica quella che cerca la compossibilità di tutti i tempi, e il regime epico è quello di un presente allargato. Come nella ricapitolazione paolina essa contiene, abbrevia e contrae in ogni gesto tutto il passato e tutto l’avvenire. Il disaccordo originario del soggetto epico è questa tensione. Il soggetto epico è un soggetto plurale.

Il soggetto epico è anche e prima di tutto noi. Ma chi osa ancora dire “noi”? Ricœur vorrebbe sempre riportarci a questa possibilità, a un genere di linguaggio che autorizzerebbe il noi, l’azione e la parola a più voci. Il gesto epico è plurale, attraversa più soggetti. Se abbiamo bisogno di epopea è per provare questo noi. È anche perché se la tragedia supponeva la separazione dei generi e la commedia la loro confusione, l’epopea originaria si colloca ancora nella loro indistinzione: l’epopea tocca il più prosaico quanto il più poetico, e la narrazione è in essa tanto descrizione minuziosa quanto prescrizione dettagliata. Nell’epopea, la storia e la finzione sono ancora indissociate, e il loro intreccio tocca l’inobliabile, ciò che nell’ammirevole e nell’orribile non potrebbe essere rappresentato altrimenti. L’amicizia epica, secondo Simone Weil, è capace di amore per i nemici (l’incontro Achille-Priamo nell’Iliade), ed è capace di far dire all’eroe morto che preferirebbe essere un servitore sofferente (l’incontro Achille-Ulisse nell’Odissea). La grandezza epica conosce la compassione, riconosce la dolcezza di vivere dell’altro.

Siamo qui nel cuore della prospettiva etica, dell’orientamento verso una vita buona ma con gli altri, e sappiamo che l’orientamento al bene prende diverse accezioni. C’è appunto epopea perché l’amicizia epica è ciò che spinge ognuno di volta in volta a dare la sua eccellenza, a spendersi senza risparmiarsi, a superarsi in eccellenza. Una simile amicizia rende reciproci le narrazioni e i saggi di sé, in una distribuzione dei ruoli che vorrebbe essere così liberamente plurale da non avere bisogno di regole obbliganti. L’epopea racconta questa fondazione dimenticata, questa grammatica e questa distribuzione che mette in scena le nostre storie: Hegel riteneva che ogni popolo avesse la sua epopea, la sua bibbia, il suo libro primordiale, e Ricœur parla dei nuclei etico-mitici di ogni cultura.

In un testo dal titolo “L’image de Dieu et l’épopée humaine”, Ricœur lamenta che l’immagine di Dio sia stata ridotta a un piccolo contrassegno individuale, e che si sia perso il senso di un’epopea più vasta dell’umanità e della creazione. Ora il secolo ha mostrato che c’è una vastità epica del male che attraversa soprattutto le passioni dell’avere, del potere e del valere (i mali dello sfruttamento economico, del dominio politico, dell’alienazione culturale, sono irriducibili gli uni agli altri e travalicano ampiamente i piccoli peccati individuali). Bisogna dunque pensare, con i padri greci, una redenzione che sia non meno epica. In questo grande racconto della creazione, della caduta e della redenzione, riconosciamo quanto vi è di anti-gnostico anche in Hegel. C’è epopea perché questo mondo non è perduto, perché è lavorato e amato.

Ma non è forse questa stessa grande narrazione, e la ricerca di narrazioni sempre più potenti, integratrici, totalizzatrici, che sotto il motivo dell’emancipazione e dello sviluppo ci ha assoggettati a una teodicea infernale, capace di giustificare tutto? L’epopea, perché crede di poter dire tutto, e si effettua secondo una ri-presa che ri-comincia tutto, non è il culmine del linguaggio totalitario? Non è un caso che Ricœur, in un testo recente su Paolo, legga la ricapitolazione come “detotalizzazione”. E sappiamo quanto è importante saper “rinunciare a Hegel”. Ricœur rimanda così all’idea kantiana di limite. “Il vero male, il male del male, non è la violazione di un interdetto, (…) esso non appare se non come una patologia della speranza, come la perversione inerente alla problematica del compimento e della totalizzazione”. È possibile pensare l’epopea appunto come questa totalità rimasta desiderio? L’epopea deve allora essere dissociata dalla linearità cumulativa e integrale, e collocarsi nel divario stesso delle narrazioni messe in scena. Mosé muore prima di toccare la terra promessa, e l’epopea si mantiene allora nella mischia delle storie e delle traversate, le cui discordanze consentite fanno la sola concordia. L’epopea è un labirinto narrativo senza punto di vista sinottico, è un popolo che si ignora, uno tra altri.

Il triplice disaccordo

Abbiamo esaminato una ad una tre figure del soggetto, alle quali abbiamo raccordato tre grandi posizioni morali. Di fatto l’affinità del pensiero di Ricœur con la pluralità irriducibile dei generi letterari mi sembra indicare qualcosa della sua concezione del soggetto, di quella sproporzione “di cui il nostro cuore soffre il disaccordo originario”. Questa concordia discordante, questo “accordo discorde insieme e fresco” di cui parlava Verlaine, sì, è proprio il cuore intimo del soggetto ricœuriano, della fragilità del sentimento da lui superbamente descritta, nel quarto capitolo di uno dei suoi libri più kantiani, L’uomo fallibile. Ci si ricorderà che in questo capitolo, che corrisponderebbe alla terza critica kantiana e tratta della “fragilità affettiva”, non siamo più sul piano di una sproporzione trascendentale del conoscere, né su quello di una sproporzione pratica tra il rispetto e la felicità, ma su quello del conflitto intimo nel sentimento che lega il conoscere, l’agire e il sentire. C’è così un conflitto da sé a sé, un disaccordo sempre già presente nel cuore del nostro soggetto.

Partendo da questa antropologia kantiana, probabilmente riletta molto presto da Ricœur nei termini della tensione introdotta da Karl Jaspers tra l’acquiescenza e il rifiuto, tra la conciliazione e la lacerazione – ma anche tra “la legge del giorno e la passione della notte” – ho voluto ritornare sulla questione della consistenza, della coerenza del soggetto ricœuriano. E ho voluto a grandi tratti indicare che questa consistenza non è la stessa secondo i regimi in cui la modalizziamo. Fin qui, ancora niente che non sia molto kantiano. La configurazione soggettiva non è la stessa, non è lo stesso conflitto delle facoltà, a seconda che si tratti di parlare, di sentire, di conoscere, di agire, di raccontarsi, di imputarsi una responsabilità, di ricordarsi, ecc. Chiamerò per esempio regime la configurazione che dà al soggetto una consistenza differente a seconda che si tratti, riprendendo i grandi “generi” biblici, di pensare la creazione come una separazione fondatrice, la legge come un’obbedienza amorosa, la profezia come una sentinella dell’imminenza, la lamentazione come una preghiera, e il canto d’amore come il libero gioco del metaforico – il genere narrativo non è che uno dei grandi generi biblici.

E come Ricœur insiste sul fatto “che la nozione di identità narrativa trova il suo limite e deve unirsi alle componenti non narrative della formazione del soggetto agente”, così l’etica non si riduce all’argomentazione morale, e abbiamo, sul piano stesso della coerenza morale, tre modalità assai profondamente diverse: quella della prospettiva etica, quella della norma morale, e quella della saggezza pratica. Il mio intento era, qui, a titolo esploratorio, di raccordare questi tre regimi a dei grandi generi letterari, per mostrare le trasformazioi regolate che permettono di passare da un genere all’altro, da una configurazione soggettiva all’altra. Se il mio filo conduttore è stato hegeliano, è perché Hegel si è posto, mi sembra, esattamente lo stesso problema, e nella triade finale del suo capitolo sulla “religione estetica” nella Fenomenologia dello spirito, espone, per così dire a carte scoperte, il cuore del proprio problema.

Ci si può porre per Ricœur la stessa domanda che per Hegel: è epico? o tragico? o, alla fine, piuttosto comico? La questione è ancora più delicata se, come George Steiner nelle sue Antigoni, si delinearizza Hegel per “far leggere le simultaneità spesso conflittuali” di un autore che pensa contro se stesso e mette incessantemente in scena il legame agonistico che divide la coscienza – cita Hegel: “Io non sono uno dei combattenti. Io sono invece i due combattenti e il conflitto stesso”. Se si dovesse scegliere uno di questi generi, in fondo, Steiner direbbe che Hegel è tragico, che la tragedia è il cuore della dialettica. Anche per Ricœur è la tragedia che bisognerebbe mettere al cuore del pensiero. Ma si può dire che la dialettica è sbilenca, duale, tragi-comica, che ci si fa male ma ci si rialza; e in fin dei conti Hegel non conclude forse con il comico, con la distensione di chi è presso di sé anche nel proprio annientamento? L’oscillazione del tragico e del comico è appunto l’essenza del comico, lo scambio dell’alto e del basso, del vecchio e del giovane, del maschile e del femminile, dell’amico e del nemico, del padrone e del servo. A sua volta l’epopea, il primo dei tre grandi generi, può rivendicare di riprendere tutto il suo posto con il suo grande ritmo, più ternario, più narrativo, ed è il grande racconto hegeliano, quello che ci fa più paura – ma anche quello che porta in sé il maggiore bilanciamento, e ci apporta la più grande nostalgia.

Se ho presentato i tre generi in un ordine modificato, è appunto per far sentire meglio la non-linearità e la confusione introdotte da una rilettura post-kantiana di queste quindici pagine di Hegel. L’ordine epico-tragico-comico è certamente sotto molti aspetti il migliore, quello che rivela meglio il pensiero di Hegel e probabilmente quello di Ricœur. Ma concludere con l’epopea ci colloca sulla soglia della tragedia, e il cerchio delle riletture può continuare. E poi voglio lasciare incerto il passaggio: non si passa così facilmente dall’uno all’altro, Ricœur insiste spesso sui vicoli ciechi, sulle discontinuità, sui salti, e questa incertezza è costitutiva del soggetto.

Come uscire da questo labirinto in rovina che Ricœur ci fa leggere in Hegel, e Hegel in Ricœur? Che impaginazione, che messa in scena di voci a volte divise, a volte confuse, sempre plurali! Ho iniziato con il soggetto tragico, perché se ce ne fosse solo uno in fin dei conti sarebbe lui. L’età d’oro dell’epopea sembra perduta, il regno delle singolarità incomparabili non è ancora che uno scoppio di risa, e l’età di ferro è coestensiva alla storia. Ma il tragico potrebbe esagerare e fare ancor più del male facendo di tutto per evitarlo.

Ecco perché ho comunque continuato con il comico, cioè con il tragi-comico. Questo ha tutto il suo posto, forse il suo posto finale, incompiuto e insuperabile, è il suo ritmo che fa zoppicare la giustizia tra il legale e il buono, o zoppicare i rapporti della giustizia e dell’amore, dell’equivalenza e del dono. E la conversione perpetua del tragico in comico, e del comico in tragico, la facoltà di passare dall’uno all’altro, mi sembra essere il motore morale ritmato dalla tensione dell’importanza e dalla distensione della relatività. Non tutto è grave, ma non tutto è indifferente. Bisogna sapere tenere il proprio ruolo, e saper cambiare di posto.

Solo l’epopea, però, poiché ci rende una lingua più sovrana, più indistinta, una lingua che ci autorizza, può farci uscire dalla malinconia di esistere soltanto isolandoci stoicamente, o svenendo di gratitudine per essere esistiti. È così che si ritorna a volte, discretamente, dal tragi-comico verso il genere epico. Ma la sua ripresa narrativa non potrebbe bastare a contenere la contesa (différend), a pretendere di totalizzarla senza che immediatamente il tragico esploda. Ognuno ricollocherà i generi nell’ordine che vorrà. Nessuno è soddisfacente. Ma essi sono, di volta in volta, magnifici, e la loro conversazione dura.

Olivier Abel

Traduction en italien de l’article Publié dans Ricœur,
l’Herne
,
Paris : éd. de l’Herne, 2004.